Il 27 febbraio del 1969, il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon venne a Roma in visita ufficiale. La città universitaria fu stretta d’assedio da carabinieri e poliziotti. Gli automezzi con gli idranti ci innaffiavano per disperderci. Non riuscirono ad entrare. Furono ore molto concitate. Ho ricordi a strappi. Mi vedo riempire di benzina le bottiglie di Coca-Cola e di birra, stringere uno straccio intorno al collo e passarle per il lancio a EnzoMaria, che era molto più forte di me. Le cariche di “alleggerimento” dei carabinieri avevano poco successo. Riuscivamo ogni volta a ricompattarci. Si aprì anche un dibattito volante tra chi sosteneva che le bandoliere con le giberne ottonate, che i carabinieri usavano come fruste, facessero più male dei manganelli dei celerini e chi spiegava che il manganello arrivava sempre a segno mentre la bandoliera era facile da schivare.
In serata, sfilammo in corteo per Via Veneto, dove c’era e c’è l’Ambasciata Usa. Eravamo tutti insieme senza badare alle etichette, ma noi decidemmo di lanciare i nostri slogan e perciò ci dividemmo in tre gruppetti distribuiti in testa, al centro e in coda al corteo. Quando dalla coda, cominciammo a strillare “Palestina libera”, un compagno mi chiese cosa c’entrasse Palestrina. E così scoprii che temi per noi ovvi, agli altri erano poco familiari.
Il 9 aprile ero con un compagno di lotta (che non nomino perché sta facendo una bella carriera su un altro fronte) a Battipaglia in agitazione per la chiusura del tabacchificio e dello zuccherificio. La città vedeva sgretolarsi il proprio tessuto industriale per essere ricacciata nel precariato agricolo gestito dai “caporali”. Fu occupata pacificamente la stazione ferroviaria, ma le cariche di celerini e carabinieri scatenarono la rabbia anche delle famiglie che non erano minacciate direttamente dai licenziamenti. Ricordo che in piazza avevano allestito un palco per i comizi annunciati dai sindacalisti. Ne scuotemmo qualche palo e la struttura crollò miseramente. Fu una sorta di segnale della rivolta. Qualche criminale comune colse l’occasione per assediare commissariati e devastare schedari, ma in generale fu una vera lotta di popolo (incazzato). I poliziotti misero mano alle pistole. I tiggì della sera e i giornali del giorno dopo raccontarono che “proiettili vaganti” avevano colpito e ucciso. Ricordo una donna che lanciava dalla finestra i suoi vasi di fiori sugli elmetti dei celerini: fu presa di mira e uccisa.
In quel 1969, organizzammo numerose azioni politiche e fummo presenti dovunque la gente protestasse contro uno Stato corrotto ed inefficiente. Il governo di Mariano Rumor, a maggioranza Dc-Psi-Pri, aveva come contraltari Sandro Pertini, il collezionista di tele presidente della Camera, Amintore Fanfani, l’ex docente di Mistica Fascista presidente del Senato, e Giuseppe Saragat, l’uomo degli americani presidente della Repubblica.
Contro le azioni politiche (nostre e di altri gruppi extraparlamentari), scoppiarono bombe da tutte le parti e in massima parte “firmate” da gruppetti anarchici. Dinamite e tritolo ebbero anche altri “padri”, solitamente “comunisti” (di matrice castrista-feltrinenniana et similia) e qualche volta “fascisti”. Furono i primi vagiti della costruzione poliziesca degli “opposti estremismi”. Da qualche parte ho l’elenco degli attentati riusciti e falliti; lo pubblicherò quando lo ritroverò. Il 12 dicembre chiuse l’anno 1969 nello stile dei fuochi artificiali: piccoli scoppi prima del botto finale. Il paragone non risulti offensivo per le vittime di quel giorno.
In un’ora (tra le 16,30 e le 17,30) scoppiarono la bomba nella Banca nazionale dell’agricoltura a Milano (fu una terribile strage), la bomba alla Banca nazionale del lavoro a Roma, e due bombe al Vittoriano a Roma.
Nonostante questi pesanti segnali, continuammo a fare politica. Con maggiori cautele per non lasciar spazio agli agenti provocatori.