Nicola Lofoco, giornalista e ricercatore storico, nega assolutamente la presenza di servizi segreti stranieri dietro il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro. Il leader democristiano, tenuto prigioniero 55 giorni e poi ucciso dalle Brigate Rosse nel 1978, è tuttora al centro di uno dei tanti misteri d’Italia continuamente riraccontati e mai definitivamente chiariti. Tutta la verità sul caso-Moro è ancora da scoprire: i memoriali dei brigatisti, le ricostruzioni dei giornalisti, i rapporti di numerose polizie e di una decina di servizi segreti affastellano ipotesi e fatti molti dei quali si smentiscono a vicenda. La verità è che i punti acclarati sono pochi.
Per questo, il confronto tra Gabriele Adinolfi, “terrorista nero”, e il citato Lofoco ha fatto emergere alcuni elementi che negli anni non hanno avuto, come altri, l’attenzione ossessiva dei media.
Per Lofoco non ci fu nessun intervento esterno e tutto è da addebitarsi alle Brigate Rosse e all’impreparazione delle forze dell’ordine. Di tutt’altro parere Adinolfi, che negli ultimi anni si è dedicato alla stesura di romanzi storici nei quali il tasso di verità compete con la vena letteraria. Ci fu un’eterodirezione dei brigatisti, ma disordinata: Adinolfi la vede come una cooperazione non pienamente riuscita. Le coincidenze più che sospette sono parecchie: il covo di via Gradoli, per esempio, era gestito dagli 007 di casa nostra; la strana rimozione del questore Migliorini oppure l’accentramento delle indagini nelle mani degli stessi futuri depistatori della strage di Bologna… insomma c’è da riflettere: e non poco.
Adinolfi, il quale – e questo non va dimenticato – diede vita a Terza Posizione, un’organizzazione extraparlamentare marchiata come “terrorista”, ha elencato i messaggi in codice lanciati nel corso di quei 55 giorni (Gradoli, Civitella Paganica, Lago della Duchessa) i quali indicavano il luogo dov’era prigioniero Moro e dove venne ucciso. E dov’era? A meno di cento metri dal luogo in cui fu ritrovato il cadavere, come è attestato da una perizia del Tribunale di Roma risalente a quell’anno. Una perizia che delineava con precisione un magazzino di stoffe nel ghetto romano.
Le divergenze tra i due relatori si sono rivelate fortissime durante il dibattito. Per Lofoco, pe esempio, la nota Hypérion di Parigi, che aprì una succursale nel ghetto romano subito prima del rapimento Moro e che chiuse immediatamente dopo, era solo una scuola di lingue e il Superclan diretto da Corrado Simioni e Duccio Berio, e di cui faceva parte Mario Moretti, non ebbe un ruolo rilevante. Per Adinolfi invece esso s’impadronì dal 1974 della direzione della lotta armata e Hypérion fu un autentico crocevia di formazioni guerrigliere e di servizi dell’est e dell’ovest: inglesi, francesi, israeliani, tedesco-orientali. Dissenso totale tra i due relatori anche sulla figura di Igor Markevitch, il direttore d’orchestra sospettato di essere l’uomo che interrogò Aldo Moro. Per Adinolfi il ruolo di Markevitch, e del cognato Hubert Howard, direttore del servizio americano di guerra psicologica, è stato centrale fin dagli anni quaranta, quando si stabilirono cooperazioni tra agenti angloamericani e partigiani rossi.
E perché fu ucciso Moro? Lofoco, ex collaboratore dell’Unità, il quotidiano comunista un tempo bibbia degli operai, punta il dito contro le diseguaglianze e mette la vicenda Moro tra gli effetti dello scontro sociale, l’autunno caldo etc., per Adinolfi fu la politica di Moro, più volte presidente del Consiglio dei ministri e ministro degli Esteri, giudicata troppo lontana da Israele perché sosteneva l’autodeterminazione del popolo palestinese.
Il dibattito, svoltosi a Roma, alle Edizioni Pagine, e introdotto da Egidio Eleuteri, Daniela Pozone e Fabrizio Federici, ha visto i due protagonisti trovarsi d’accordo su un fatto: l’allora ventilato compromesso storico non fu la causa scatenante, non fu l’innesco che fece esplodere il caso-Moro.